Germano Beringheli
IL LAVORO ottobre 1978
Mostra alla Galleria l’Incontro – Genova.
Delfina Camurati espone all’Incontro una serie di opere la cui essenza intima trova ragioni espressive nella metafora, ovvero in quella operazione di sostituzione, come la definisce il dizionario, di un termine proprio con uno figurato, in seguito ad una trasposizione simbolica di immagini.
Simbolo della legge della gravità, il filo a piombo è anche l’emblema obiettivo che la Camurati assume per raffigurare metaforicamente la connessione concettuale tra cose inerenti: il certo e il possibile, il feticcio di verità e la rivelazione di verità.
I doppi e opposti dati sono offerti, in ogni opera, dalla raffigurazione fotografica del filo a piombo statico, inerte, chiuso nel proprio spazio da un lato e da un disegno geometrico ottenuto con una corda che entra ed esce dalla materia dall’altro. Mentre il filo a piombo riflette la propria immagine ferma, la corda che disegna intenzione, forma ad ogni immagine, un qualcosa di più.
Uno dei possibili sensi di lettura di questo «lavoro» della Camurati potrebbe essere di tipo husserliano: per Husserl la verità non può mai esser ottenuta attraverso una operazione definitoria perché la verità è infinita. Il cammino verso la verità è il cammino dell’umanità che cerca di diventare sempre più razionale, più libera, più armonica.
La conquista dalla verità avviene nella storia ma non è esauribile né dalla scienza né da un particolare momento storico. La verità dunque non può essere in ciò che è statico ma è ciò che è dinamico.
Vale aggiungere che al di là della «filosofia» le immagini della Camurati serbano un livello notevole per essenzialità costruttiva e per misura estetica.
Giorgio Brizio
Galleria 9 colonne
Trento, gennaio 1979
Delfina Camurati utilizza nell’attivazione dei segnali una direzionalità bivalente nel suo quantificarsi in immagine/sequenza. L’icone del filo a piombo è contrapposta ad altra icone, il monumento che si estremizza sempre nel luogo deputato per antonomasia a rappresentare architettonicamente il potere dei sistemi. Analogamente procede nella strumentazione operativa. Usa la registrazione fotografica dello statico reale per evidenziarne l’immanenza persistente; usa il punto di sutura a corda per «disegnare», nelle viste assionometriche o in piano, l’immaterialità del «concetto» semantico del monumento. Questo sottile distinguo, acuta riflessione sulla semanticità degli strumenti e dei materiali usati, è forse la miglior derivazione da certe direttrici di ricerca contemporanea. La Camurati contrappone due derivazioni tecnologiche, o meglio due sostituzioni, al concetto arcaico dell’osservazione ad occhio nudo (l’obiettivo fotografico) e della corda (la liana dell’aborigeno); avvertendo sulla loro continuità trasformata, nella duttilità del loro adattarsi ai tempi, la Camurati compie una loro trasposizione a simbolo visivo. I punti in corda rappresentano pure l’immaterialità del pensiero. Il loro seguire-penetrandolo, nella continuità del teorico. Il tracciato del confine murario equivale a scandire la solennità coercitiva del perimetro di quelle istituzioni societarie che sono le architetture del sistema. Il «concetto», la metafora d’immagine, viene così ad assumere una arcaicità di accumulo culturale (la tradizione delle forme in architettura), un proseguire – pur nelle trasformazioni tecnologiche – il carisma del topos, del luogo ove si «decide» concettualmente la strategia della quiete. La sutura è mimetica del tratteggio indicante le parti non in vista del disegno meccanico. Il celato è pure una parte importante delle «non comunicazioni» che il sistema emette nell’intento preciso di occultare, circoscrivere, rendere vago e innocuo, non verificabile, il segnale eversivo lanciato dai «creativi» avversi. A fronte la staticità del fotografato. Il senso di calma, di benessere spirituale e materiale, che il filo a piombo comunica, nell’ideologia cara al sistema, abituato ai patti e al compromesso.
Francesco Poli
FLASH ART 1980
Galleria Unde? Torino
In un momento in cui si assiste al fiorire di esperienze figurative costruite sulla perdita di un centro, sulla frantumazione di schemi logici coerenti, sul recuperare della dimensione dell’immagine intesa come proiezione soggettiva e frammentaria di dati prelevati dalla memoria collettiva c’è chi, come Delfina Camurati, rimane ostinatamente legato all’esigenza di un punto di riferimento fisso, costante, attorno al quale articolare il proprio lavoro. Quello che era nella rappresentazione tradizionale il fuoco centrale della costruzione prospettica si traduce, in tutte le operazioni della Camurati, nell’esibizione di un segno chiave, il filo a piombo, che con la sua tensione rigorosamente verticale ci segnala l’ineluttabile presenza di un centro di gravità, da cui, in ultima istanza, tutto dipende, anche le strutture stesse della nostra esigenza. Da freddo strumento, per operare, in termini concettuali, una riflessione sulla problematica relativa alle coordinate spazio-temporali, il filo a piombo nei lavori più recenti , è arrivato ad acquistare valenze decisamente esistenziali, quindi non più tanto un’esigenza di di/mostrazione di un assunto, quanto piuttosto l’intenzione di alludere a modalità non razionali di interpretazione della connessione dell’individuo con il reale.
In questa mostra alla galleria Unde? Il lavoro principale consiste in un ambiente che è poi una proposta al visitatore di immergersi in un microcosmo blu: il pavimento, il soffitto e le pareti sono di questo colore. Sulla parete di fronte all’entrata, in una grande foto viene indicata la fonte da cui deriva questa trasformazione: è un barattolo di vernice blu da cui sta sgorgando il colore, sotto la ‘minaccia’ come di una spada di Damocle, del solito filo a piombo. Il senso dell’operazione è volutamente indeterminato. Che lo spettatore interpreti le cose come vuole.
Marisa Vescovo
per immagini
Edizioni Panda’s
Mostra alla galleria Unde? 1980
Delfina Camurati, è protesa alla ricerca dinamica di una identità del proprio segno psicologico e grafico – ma non solo – e quindi delle sue realizzazioni simboliche, per conquistare al linguaggio una sua più raggiunta credibilità a livello delle esperienze gestuali, comportamentistiche e intersoggettive, rimaste mute nelle culture precedenti. Una ricerca di identità la sua che possiamo avvertire e rileggere nei paradigmi della odierna dissociazione urbana e collettiva, della razionalità e dell’irrazionalità, del silenzio e dell’urlo, del leggibile e dell’illeggibile, del femminile e del maschile, della coazione a ripetere, e del sonnolento tran-tran in cui rischia di incallirsi ogni giorno la nostra mente, che poi vengono doppiati, all’interno delle opere, da quei “simboli”, da quei “segni”, da quei materiali, di cui l’artista ha ormai da tempo decodificato e analizzato i meccanismi e il senso. Meccanismo e senso di un linguaggio-cultura non atrofizzato, ma ricco terreno per ri-creare nuove analogie, connessioni, o rimandi ad “altre” attitudini mentali, storiche, professionali, non dissociabili dalla condizione della donna. Vengono così rotti sempre più volentieri quegli schemi che si presentano magari troppo rigidi per immettervi una nuova realtà che ogni giorno si fa più inquieta e complessa. Credo che il lavoro della Camurati si presenti oggi con un suo segno implicito, cioè un segno che sta “dietro” o “dentro” l’opera, non in superficie, ed è dato e definito come un problema da indagare. Il filo a cui è legato un piombo, il leit-motiv quasi ossessivo dell’artista, è un segno oggettivo, concreto dal punto di vista formale, ma, letto dal di dentro, si presenta come una vibrazione sensibile che anima l’intero impianto del lavoro, un segno poetico perduto tra storia e futuro. Quello della Camurati è un impegno interpretativo del “vissuto” che si sviluppa secondo tensioni in grado di produrre lampi rivelatori che illuminano la “cosa” – metafora del vivere –, la sua mano è una mano che accerchia e stringe le cose per spremerne il senso. Anche l’ultimo lavoro: “conoscere i propri limiti”, è un grumo di momenti e di rivelazioni, una sequenza di vette tra cui non manca però la dimensione piana dei valori medi, la normalità sequenziale del quotidiano, il passare dal distinto all’indistinto e viceversa. Gli occhi sono emozionalmente passivi – i nostri occhi si sono ora però liberati di diversi diaframmi deformanti, come quello del concettualismo, del minimalismo, e possiamo spingere lo sguardo sino all’orizzonte – ricevono delle immagini, e magari delle illusioni, il linguaggio, che è sempre mutevole, diventa l’elemento attivo, quindi è tra attivo e passivo, tra occhio e linguaggio, che nasce la dialettica tra una inappagata nostalgia di assoluto e l’incessante movimento del “molteplice”. Questo lavoro discreto e ritroso della Camurati si affida così al margine, al suggerimento indiretto, affiora da ciò che sta in disparte, dal ritegno dell’aggettivo e dalla cautela dell’avverbio, cerca di cogliere l’attimo in cui le cose stanno per dire il loro segreto: il piombo legato ad una corda, o la scrittura che nasce dall’indistinto, sono figure della ripetizione, ma non dell’estasi, sono metafore da guardare da ogni punto di vista. Sentiamo affiorare sempre più udibile e fluida la poesia della dissonanza, capace di melanconia, ma soprattutto capace di disperderla, consapevole dei propri limiti, pronta ad accettare la legge del mondo, ad accettarne con pena la logica.