Sono innamorata della pittura!
Di Caterina Gualco
11 febbraio 2013
Entrare per la prima volta nello studio di un artista è per me un’avventura sempre accompagnata da grande curiosità, da una certa aspettativa e da un po’ d’apprensione. In fondo, siamo sempre “in attesa dell’estasi”, e la paura della delusione e del conseguente faticoso imbarazzo si cela dietro alla disinvoltura talvolta esibita.
In questo “lungo momento di vita/lavoro” (così mi piace chiamare la mia attività), che a volte mi appare senza inizio e per ora felicemente senza fine, come una ripetizione assolutamente differente, alla quale non mi sono ancora abituata, posso dire che sono state molto più numerose le occasioni in cui sono uscita dallo studio eccitata e felice, pronta a partire con un nuovo progetto, che non le situazioni negative tanto frustranti, che portano a parlare troppo perchè non si ha niente da dire.
Quando, dopo molti anni di assenza (non per mia volontà, ma per esigenze di vita dell’artista), sono entrata di nuovo nello studio di Delfina Camurati, non ero turbata da alcun dubbio. Avevo frequentato per lungo tempo lei e il suo lavoro, presentando con soddisfazione alcune sue mostre, e sapevo che non ci sarebbe stata delusione. In ogni caso la visione del “grande uccello rosso”, dei “cieli stellati”, delle “acque silenziose e profonde”, dei “segni animici”, che, per effetto di una mimesi sapiente affiorano sulle scabre superfici del legno, mi hanno immediatamente catturato attraverso l’energia del pensiero, del cuore e della mano. Grazie al divino strumento della pittura, queste energie ci mostrano “... gli ornamenti dei pianeti luccicanti, delle piccole stelle vermiglie, dei cieli di zaffiri blu...”.
Nel lungo periodo di allontamento dal “teatrino dell’arte”, ma non dall’arte in sé, Delfina Camurati ha continuato il suo cammino, approfondito ancora la sua ricerca della perfetta armonia, con un linguaggio a-temporale, libero e felice di se stesso.
Come due “complici” ritrovate, Delfina e io, con un grande, reciproco dono, abbiamo ripreso il viaggio insieme e questo libro ne è la prima testimonianza.
Delfina Camurati
Pittura come Scrittura dell’Illusione
UnimediaModern, Genova
di Viana Conti
Genova 11 febbraio 2013
Da dove scaturì quel suono? è il titolo di un’antologia di interpretazioni critiche e di opere visuali, in parte riferite alla mostra personale all’UnimediaModern di Genova, che inequivocabilmente rinvia alla ricerca cosmica e poetica di una sorgente sonora.
La domanda, senza risposta, è, tuttavia, destinata a risuonare nel silenzio: quel silenzio di cui si circonda, in atelier, il lavoro quotidiano di Delfina Camurati. Artista di respiro europeo, nata a Biella, residente e attiva a Torino, apprezzata a Minneapolis e New York, ma particolarmente, per il suo ciclo, anni Ottanta, sull’area del trompe l’oeil, in Belgio, il Paese che ha dato i natali a René Magritte, maestro del mistero surrealista, significativamente denominato le saboteur tranquille, come acuto e sottile sabotatore del reale in pittura. Lucida e puntale quindi l’osservazione di Mirella Bandini che trova nel suo lavoro “un rimando a Magritte e a tutto il prezioso meccanismo mentale che ha innescato nell’arte.”
La pittura infatti è quel linguaggio che rappresenta l’assenza simulandone la presenza. Per descrivere questa funzione, non c’è termine più efficace dell’italiano Ritratto, che esprime il moto del ritrarsi del soggetto al di là della tela, lasciando apparire di sé solo una traccia, un’impronta illusoria. Sembra che la sua scelta sia già iscritta nel nome Delfina, indicando il mito greco la nascita della pittura nella città di Delfi.
E una sorta di responso oracolare si percepisce davanti ad un’opera che, sotto le sembianze di inattaccabile pietra, nasconde un’anima di arrendevole e scalfibile legno, magistralmente dissimulato dai colori lapidei delle terre naturali utilizzate dall’artista e dalla “bocciardatura”, se così si può dire, prendendo il termine a prestito dalla scultura, di una operosa sgorbia, di un delicato trapano, su superfici, corrugate e grezze, dalle apprezzabili valenze chiaroscurali.
Originariamente di formazione concettuale, di estetica minimalista, aperta, successivamente, alle valenze antropologiche, archeologiche, archetipiche, sacrali, del segno e dell’installazione nello spazio, Delfina Camurati è sensibile al dialogo tra la materialità e la leggerezza, negli anni Settanta, tra la realtà e la finzione, in cui si riflette un vacillare delle certezze, negli anni Ottanta. Un libro firmato Henry Martin ed una mostra, datata 1984, alla Galleria Unimedia di Genova concludono, sullo sguardo illuminato di Buddha, ritratto su un drappo, il periodo delle simulazioni azzurre.
Nella sua perdurante esplorazione del limite dell’immaginario e del linguaggio, attraverso acqueforti, acquetinte, primi anni Settanta, icone, oggetti, pittura, scultura, scrittura, disegno, fotografia, Delfina ha attraversato cicli operativi in cui hanno trovato visibilità, su tele e legno trattati a olio e aniline, superfici drappeggiate in magiche pieghe virtuali, tendaggi sfrangiati, finestre, stendardi, paraventi, bandiere, tutto immerso in un notturno blu di prussia, sovente contornato da bordi di rosso acceso.
Nei suoi allestimenti, negli effetti di luce, in una certa aura mistica, è leggibile la tensione di un set teatrale, di uno spazio araldico, che l’idea di sipario sul reale non ha mai mancato di suggerire, perfino su alcune delle sue tele dipinte. Del 1985 sono la rigorosa installazione ambientale I Pilastri del tempio, nella Chiesa di Santa Maria degli Angeli di Modena e il catalogo, con introduzione di Andrea B. Del Guercio e testi di Marisa Vescovo, Janus, Giorgio Cortenova, Henry Martin, Mirella Bandini, e sull’area della ricerca di Roberto Canditi. Prende così avvio il ciclo dei Muri, rinvianti ai monoliti preistorici, alla ricostruzione ossimorica di rovine intrise di vissuto, di memorie, di un’umanità in viaggio alla ricerca del suo sentiero, un ciclo che progressivamente si apre, negli anni Novanta, su un altro orizzonte. Sui muri, già metaforicamente segnati dall’usura, dal degrado e dagli agenti atmosferici, si abbattono lignee Lame taglienti, si dischiudono ferite, appaiono crepe, finestre, ma anche scenari aperti su realtà altre.
Nonostante il crescente interesse internazionale per il suo lavoro, l’artista, nel 1995, interrompe l’attività espositiva. Nel 1996 prende avvio il ciclo dell’Acqua, ciclo di lavoro che segna un arresto, verso l’esterno, un affacciarsi del suo sguardo sulla dimensione, allegorica, della profondità, della sedimentazione, della trasparenza.
È in questa fase riflessiva che la sua presenza nel mondo dell’arte accade sotto un’altra forma: Delfina Camurati inizia ad insegnare la pittura, per una decina d’anni, a livello teorico e pratico, approfondendo, anche sulla base di una ricerca di identità, la tematica del ritratto.
Sono gli anni di un emblematico viaggio in Marocco, gli anni in cui, come dice l’artista, si verifica un salto di ottava. Con spirito rinnovato si immerge nel rituale della pittura, di alta tradizione, come in un risalimento all’origine, in un viaggio iniziatico senza fine.
Un viaggio silenzioso esordito in solitudine per poi proseguire, con uno spirito più intimamente comunitario, nella visita dei monasteri in India, in Nepal, in Perù, in contrade dell’America del Sud.
La sua riflessione trova ascendenze nel pensiero di Arthur Schopenhauer, primo filosofo occidentale attento all’Oriente ed in particolare all’India. Sulla sua scia, l’artista avverte il mondo come una rappresentazione, una parvenza, una visione ottenebrata da un velo, quel velo di Maya, contrapposto al Nirvana, che ne falserebbe la realtà rendendola illusoria, una realtà tuttavia, che, una volta raggiunta, si rivela nell’iterazione di sofferenza e dolore, come si predica nel Buddhismo. In sorprendente sintonia con il filosofo tedesco, che concepisce l’esistenza come un pendolo oscillante tra dolore e noia, si scopre che la stessa Delfina Camurati, in un suo ciclo di opere, risalenti alla metà degli anni Settanta, ricorre alla presenza ora di un filo a piombo reale, ora riprodotto fotograficamente accanto alla sua mano che gli imprime un moto verticale, derivante dalla sua massa gravitazionale, infine simulato pittoricamente su fondo blu, all’interno di una splendente cornice dorata, circonfusa di aura metafisica.
Se, da una parte, la sua formazione spirituale è più incline alle filosofie orientali, dall’altra, le sue scelte estetiche, fondate sulla ricerca della centralità, di una planimetria euclidea, di un equilibrio armonico, non mancano di trovare i loro grandi referenti “concettuali” nell’immobilità cerimoniale dell’arte di Pier della Francesca, nei monocromi oltremare di Yves Klein, nei gesti radicali di Lucio Fontana, nelle valenze emozionali e spirituali del colore di Vasilij Kandinskij, nelle astrazioni ritmiche di Piet Mondrian, nelle rammemorazioni del paesaggio, musivamente e musicalmente cromatiche, di Paul Klee.
A partire dai primi anni del Duemila, cambiano suono anche i titoli dei suoi pannelli dipinti, dei suoi rilievi sagomati, delle sue bande lignee sottili, delle sue saettanti lame ramate, assecondando una poetica del prodigio naturale, di una chiamata interiore, scaturita da ore di impegno pittorico e meditazione profonda.
Di anno in anno, rivestono la risonanza di un mantra, la sintesi di pensiero e di immagine, l’istantaneità visiva di un haiku. Sono questi i titoli che accompagnano, sommessamente, le opere rinvianti all’Acqua, al Fuoco, all’Aria: Il Dio dell’acqua è tempo che incontriamo, 2002, Il lampo dura un istante, 2009, Pura potenzialità anteriore alle singole forme, 2009, Faville di fuoco concentrate in un sol raggio, 2009, Come un soffio devo andare, 2012, L’albero della vita, 2012, L’energia cosmica a contatto con l’anima si cristallizza, Appare un uccello rosso, 2012, Vibrazione sottile in cui si rivela l’essenza del tempo primordiale, 2012, La Vastità, 2012.
C’è un rilievo dipinto, grigio come la pietra, riferito all’uomo, all’umanità, alla sua forza generatrice, che individua, anche nella cultura occidentale, come centri di forza attiva e fluida, i punti dei sette Chakra, gangli fisici in cui si concentra l’energia detta Prana o Kundalini, nella fisiologia e filosofia indiana della tradizione, volta all’equilibrio del sistema corporeo.
Il suo viaggio iniziatico nella profondità dell’essere vive momenti di scoperta e fascinazione, anche di ordine virtuale, di fronte alle ocre rosse ed ai pigmenti neri, alla purezza del segno e all’ampiezza del gesto, dispiegato in tutta la sua incisiva lunghezza, nel leone e nella leonessa del sito preistorico, probabile luogo di culto, della grotta francese di Chauvet, dalle pareti cristalline e iridescenti, scavata nei secoli dal fiume Ardèche.
Nel racconto di alberi, che la sua finzione pittorica ha pietrificato, è sotteso anche il rapimento mistico del suo sguardo di fronte a quel momento magico del solstizio estivo in cui i raggi del sole accendono l’asse dell’anello, del sito neolitico inglese, sulla Piana di Salisbury, dei megaliti di Stonehenge, monumentale opera dei Patriarchi Druidi.