Alberto Lui
PALAZZO DEI DIAMANTI
Galleria Massari 1 – Ferrara
giugno 1986
Necessario è un tempo dell’avvicinamento, un percorso che conduca gli occhi a ridosso della superficie, le dita a toccarla come si toccano pietre antiche e reperti: li accarezziamo nell’illusione che questo contatto congiunga, doni, trasmetta, ricomponga un infranto che ancora appare offuscato, vago, grumoso, magmatico o dionisiaco.
Quando le dita sfiorano, il tatto percepisce ed il corpo vibra, allora vorremmo incessante questo rapporto, perché l’altro occhio, quello della mente e/o della memoria, pare inizi a vedere, a compiere il suo percorso perlustrativo che rimbalza incontrollabilmente dalle superfici abbordate o appena toccate – o antiche di migliaia di anni (micenee, greche, etrusche o medioevali) – a pareti di case in cui abbiamo vissuto, a muri in pietra sui quali, vagando con lo sguardo dell’insonnia, abbiamo trovato fiabe ed immagini, angeli e mostri, selve e castelli.
Ma la visione («questa cavità centrale che è la mia-propria-visione»), stabilisce distanze, ordina collocazioni e proporzioni, gerarchizza deduzioni. La pittura è per antonomasia, esperienza dello sguardo e questo (lo sguardo appunto) desiderio. Esso invidia: «desiderio dell’opera da niente mai soddisfatto nel suo rimbalzare e correre da un oggetto all’altro», da un quadro ad un altro, da un muro ad un altro muro. «Muri» infatti sono definiti da Delfina Camurati i suoi ultimi lavori: «muri in pietra» sui quali non un tempo ma molti tempi sembrano aver lavorato e deposto, senza alcuna soluzione di continuità, tutte le scorie dei loro vari accadere, le tracce del loro essere fluttuanti, come se il «tempo storico» fosse imploso opponendo incessanti precipitazioni verticali ad un processo orizzontale inteso come seguito lineare di avvenimento o, al limite, come «sviluppo».
Muri in pietra costruiti con/in un incessante martellamento del tempo e della superficie, una sorta di macinazione-macerazione continua, ineluttabile, che restituisce a chi guarda ed osserva, a chi si trova collocato nell’al-di-qua dell’opera, una sensazione di precario e di difficile equilibrio.
Possiamo rimanere ore e giorni di fronte alle superfici dipinte e costruite che Delfina Camurati ci consegna: aspettare il variare della luce e con essa delle ombre, dei toni, delle connotazioni di questa «pietra» fatta ad arte, quasi per una scommessa, per (un) ritorno, per (un) nuovo inizio. Mutano talvolta i timbri cromatici, altre volte i rilievi, o ancora, secondo i giorni, i rossi, gli ocra, i gialli, i neri.
Nonostante tutto le opere rimangono tali, isolate, catalogate, distinte le une dalle altre come nelle biblioteche, inscritte nella collezione: «Felicità del collezionista – dice Benjamin nei primi appunti dei suoi “Passages” parigini – felicità del solitario: tête-à-tête con le cose».
Infine, per riprendere l’ex-ergo iniziale, non rimangono che possibilità per interrogazioni sul silenzio, «anzi punterei l’ultima carta sul cercare da ogni parte, all’interno del già pensato, il non-pensato che suppongo esistere». Così divengo io stesso artista: promuovo i segni a luogo in cui non sono e dentro al quale tuttavia penso. M’immergo nello spazio non mio e me ne approprio progressivamente, «(…) mentre l’artista farceur e pasticheur sbircia il riflesso delle sue pantomime linguistiche, dei propri esercizi compiuti sul filo del linguaggio patologico, trapezisti compiuti sulla afasia artificiale; poliglossie e poligrafie».
Ancora una volta Delfina Camurati ci offre suadente il tranello dello inganno e della illusione e ancora una volta una «porta/soglia» pare offrire una possibilità di scampo. Ma non d’illusione si tratta bensì di finzione, o meglio, di simulazione. C’è sempre la possibilità di un oltre che l’artista afferma essere misterioso: supponiamo («poiché lo specchio laterale non si limita a mostrare in immagine ciò che è reale fuori dall’immagine, ma raddoppia un’altra finzione, inquadra e riflette un’altra menzogna») che in quell’oltre simulacro e finzione ancora imperino.
Certo è che questi frammenti di resti, di rovine, di archeologie, queste preziose simulazioni che Delfina Camurati costruisce e consegna al nostro sguardo, paiono emergere da una sorta d’inconscio: «non l’inconscio dove si agitano fantasmi personali ma quello collettivo, dove ci si imbatte in sogni, miti, desideri, fantasie e ricordi di epoche da tempo dimenticate e che appartengono sepolte in noi». Queste, mediante l’errare dell’artista in luoghi oscuri e sotterranei, tornano alla vita o alla luce per frammenti e baleni, Anche l’implosione del tempo, del «tempo storico», pare attuarsi allora fra rovine della memoria, nell’alternarsi di perdite e reperimento di ricordi remoti.
Andrea B Del Guercio
della scultura dipinta
Istituto Italiano di Cultura
New York USA 1987
Complesso è l’itinerario artistico della Camurati ed articolato appare sul piano linguistico ma riconducibile nel suo insieme al desiderio di conseguire il valore epidermico di quella che di volta in volta è la complessità della cultura, nel ricordo, dell’habitat, del tempo che troviamo riuniti nel concetto di realtà. Il lavoro, svolgendosi sempre per ampi ed ordinati cicli tematici, per i quali sono formulate specifiche soluzioni formali, appare caratterizzato dalla costante attenzione a quella materia ora compatta ora aerea, spaziosuperficie- spessore, che circonda l’essere, che lo avvolge che delimita i suoi movimenti, che filtra la sua percezione. L’opera è una realtà epidermica, ora le pareti di una stanza individuate da blu, ora una tela solcata da un movimento impercettibile, poi le architetture del ricordo ed oggi le ‘murrate’ quale spessore impenetrabile, frutto visivo della complessità dell’esistere. L’opera è una realtà che non esiste come descrizione, come popolazione di fantasmi riconoscibili, ma è essa medesima memoria, ricordo e quindi cultura nel significato più ampio.
Murrate e muri: in questo titolo si raccoglie l’ultimo ciclo redatto da Delfina Camurati, sicuramente il più intensamente epidermico, e tale termine qui contiene le tracce spesso indecifrabili del tempo contemporaneo e dell’esistere in esso. Ogni opera di questo ciclo si presenta come finestra sull’universale e la lettura è costretta a distendersi senza possibilità di fuga sulla sua superficie macerata, si raccoglie in un grumo od in una fessura più incisa, tenta di rintracciare una certezza lungo il delimitato sviluppo per poi accettare l’unità assoluta del messaggio.
La scelta della Camurati di affrontare la trascrizione visiva della composizione completa del reale ha comportato il riconoscimento di una entità che si collocasse nella storia dell’umanità come dato costante del suo paesaggio quotidiano e sulla quale si vadano appuntando i fatti della sua storia, affinché si sommino i dati dell’esistere. Il muro, inteso concettualmente come entità strutturale, persistente nel tempo, predisposta alla ricezione inesauribile, corrisponde perfettamente alle esigenze espressive dell’artista. Il muro diventa ‘custode’, ‘rifugio’, mentre la materia della sua composizione è ‘…ansia’, ‘… memoria’, il muro è esso stesso ‘Segreto di ogni testimonianza’.
Alla luce di questi dati, sintomatici di una profonda responsabilità culturale oltre che di maturità artistica, ritengo il ciclo ‘Murrate e muri’ un conseguito riconoscimento visivo della realtà intesa come cultura della memoria collettiva, e quindi inscrivo questo complesso di opere nella più emblematica interpretazione del clima di Astrazione Contemporanea.
ASTRAZIONE RINNOVATA
Nancy Cohen Artbanque
Gennaio – Febbraio 1988
Bockled Gallery
Per apprezzare i lavori contemporanei che sono sia astratti nella forma ed espressivi nel contenuto (al contrario dei lavori astratti che sono soprattutto decorativi, o pura risoluzione formale dei problemi di design e composizione), dobbiamo continuare ad accettare la premessa di Wassily Kandinsky della “necessità profonda”: questo è perfetto per gli artisti che vogliono ritrarre le personali visioni del loro sentire “profondo” in forme fisiche astratte. E mentre il cinico nel mondo dell’arte vorrebbe farci credere che questa premessa sia mancante di qualcosa - che l’arte postmoderna non possa trasformare il metafisico in fisico - ci sono ancora degni professionisti che danno nuova linfa vitale alla nozione di una presenza spirituale nell’arte astratta. Fra questi artisti c’è Delfina Camurati.
I cinque lavori della Camurati che sono esposti alla Bockley Gallery sono sia astratti sia profondamente espressivi. Le forme di legno misurate, intagliate, tagliate, colorate ingannano gli occhi dello spettatore e ne stimolano la curiosità. I lavori sembrano essere fatti di pietra antica, intagliata per uno scopo misterioso.
Non ci sono immagini riconoscibili chiaramente al loro interno, solo solchi vorticosi e cicatrici in superficie, poche ombre – la maggior parte delle quali quadrate e rettangolari – attentamente sfumate e incise nel legno, e profonde linee nere irregolari che separano i vari pannelli all’interno di ogni struttura. Questi pezzi suggeriscono molte cose, senza diventare rappresentazioni figurative di nessuna di loro: muri riportati alla luce da scavi archeologici, rovine di grotte, ed anche visioni aeree di gole e di letti di fiume in secca.
I delicati colori delle terre, che sfumano dall’arancio rossastro ai grigi verdastri, splendono come illuminati dall’interno del legno. Questi cinque pezzi sembrano appartenere ad una dimensione al limite della nostra comprensione e sono carichi di paradosso. Abbiamo visto cose come queste prima ma non riusciamo a ricordare dove. (In un sogno? In una visita ai tumuli indiani o in caverne abbandonate? Nella fotografia di uno scavo archeologico in Italia o in Africa?) Essi appaiono pesanti e contemporaneamente fluttuano leggeri sui muri della galleria. Sembrano antichi ma anche completamente nuovi. E sebbene siano silenziosi, tranquilli, sereni e pesanti piuttosto che esplosivi, riottosi e ardui, sono pregni di significato. Il messaggio della Camurati è avvolto nel mistero, ma conquista la nostra rapita attenzione.
FRANS BOENDERS
Beeldende Kunsten 1991
Delfina Camurati Muri
Galerie Francis Van Hoof
De Grote Witte Arend
Anversa
L’opera dell’italiana Delfina Camurati (1942), fortemente incentrata sulla magia della materia, è parsa sin dall’inizio calma e riflessiva. Con la sua compostezza e sobrietà sbaragliava tutti i possibili pregiudizi sugli italiani e sugli artisti donna. Non si discostava però di molto dalle mode artistiche, da cui derivava il frequente confronto con l’opera di altri. All’inizio degli anni Ottanta creava illusioni evidentemente ragionate. Appendeva tessuti in Trompe l’oeil contro le pareti della galleria, montava sul pavimento tende wigwam, allestiva paraventi su cui, entro i telai delle diverse ante, si intravedevano solo sfilacci blu. Realizzava drappeggi su cui chi aveva viaggiato in Asia poteva facilmente riconoscere gli occhi del famoso budda nepalese su cui apportava un po’ di zinco, oro, un mucchietto di pietre. Quando in seguito vidi le opere della fiamminga Lili Dujourie quali La Tosca (1984) e Jeux de dames (1987) ebbi un’illuminazione: giusto, assomigliavano tanto, talvolta sospettosamente tanto, alle composte stoffe blu di Delfina Camurati.
Significati
Un’opera, dunque, caratterizzata da teatralità. Doveva forse rappresentare la vecchia, triviale saggezza che All the world’s a stage/And all the men and women merely players? Non si trattava forse di scenari, allestimenti teatrali dal profondo impatto simbolico? Rimaneva comunque il quesito circa il reale significato di quell’abbondanza di blu e di simboli. Pensai, mi astengo per un po’. Ed ecco allora che nel 1988 Henry Martin con molto piacere scriveva che i simboli di Delfina Camurati “can be just about anything”. Ma certo! Eppure, dovevo ammettere, c’era anche un fondo di verità. Non bisogna infatti sempre cercare significati profondi. Non è forse molto spesso sufficiente venire colpiti dal campo simbolico? Il simbolo che ti guarda dall’alto in basso (avevo riscontrato più di una volta) sembra esercitare di per sé già un effetto sufficiente, laddove non inquietante. Le sue qualità possono irradiarsi naturalmente su chi gli gironzola attorno o, per dirla in maniera più elegante, su chi si muove nel suo contesto.
A metà degli anni Ottanta Camurati installò i “pilastri di tempio”. In una chiesa a Modena allestì quattro assi di legno. Rivestiti di tela, dipinta con una miscela di anilina, olio e tempera. I lati corti erano dipinti in bianco intagliato. Sembravano pezzi segati da un moderno inginocchiatoio da comunione (ma non credo che esistano neanche più), messi in verticale con l’intento dispettoso di impedirne il normale utilizzo. Sarebbe sembrato azzardato anche a me, non fosse stato per una quinta asse poggiata in orizzontale sul pavimento, con sfilacci blu alle due estremità.
Mi diede in qualche modo ai nervi. Blu, ancora e sempre blu di Camurati! Sembrava Jan Fabre. O Fabre sembrava Delfina Camurati? Vattelapesca. Una cosa era certa: nel 1980 a Torino, dove l’artista vive, aveva realizzato Una stanza blu. Altra cosa che mi diede sui nervi fu il piombino che pendeva da un sottile filo davanti all’opera vera e propria e che fino agli anni Ottanta è stato inimmaginabile pensare fuori dal piccolo mondo di Camurati.
Amorevoli muri
Insomma, lungi da me l’idea di scrivere dei drappi blu, le sacre tavole blu e i profondi filo a piombo di Camurati, se lo scorso anno non avessi visto la sua nuova opera. Era esposta nella galleria Dewever a Wakken, al centro di uno stupendo allestimento che Maurice Maelderick aveva realizzato con il titolo di Materia spiritualis. L’artista mi raccontò che l’opera era parte dei suoi “muri”, una serie che sarebbe stata esposta nei mesi successivi a Trieste. Ed è questa serie che Francis Van Hoof espone ora, nella sua (già stupenda) galleria di Anversa. Spesse assi di legno sono state perforate con fori quadrati o rettangolari, successivamente riempiti di quadrati o rettangoli in rilievo. Nulla di più semplice. Ma l’effetto visivo è strabiliante.
Non posso fare a meno di pensare alle monumentali porte dei Ming cinesi, che chiudono la Città Proibita e le tombe imperiali sulle colline a nord di Pechino e la cui superficie è rivestita di pesanti punte tonde. Una presenza formidabile, irremovibile, ordinata, eppure enigmatica. Sono lontane le ricerche sui simboli. Il blu di un tempo è stato ora sostituito da caldi colori terra. Con la patina e la profondità del bronzo. E che trasudano, almeno apparentemente, la struttura del legno sottostante. La struttura fittizia indica che Camurati prosegue nella sua ricerca dell’illusione: di fatto, la struttura sul legno viene da una crosta realizzata con anilina e terra. Eppure, lo stesso legno non più rivestito di tela dà vita alla nuova opera.
Già nel 1986 Camurati aveva presentato i suoi primi “muri”. Allora si trattava di Muri in pietra, stupenda creazione di muri di legno dipinto ancora oppressi dal peso della loro materia. Ora non è più così. La costruzione sembra artificiosa, ma il legno vive davvero. E con il supporto, vivono anche le forme apportatevi sopra o inseritevi in mezzo. Gli elementi geometrici in rilievo trasudano la stessa forza maestosa degli enormi coppi tondi sulle porte cinesi. Le linee che attraversano le opere di Camurati non sono più i rigidi fili a piombo, ma sono ora tracce tremanti e dunque vive che talvolta si dilatano in vere radici o esitanti percorsi. Le ricerche intellettuali di ieri hanno lasciato spazio nell’opera di Delfina Camurati ad una discreta umanità che appare nostalgica (la terra) quanto universale. Sono muri da amare, su cui meditare.
Robert Lefévre
La semaine d’Anvers
Galerie Francis Van Hof
1991
Dal 1986 – e noi abbiamo già avuto l’occasione di parlarne quattro anni fa – Delfina Camurati “costruisce” muri. O, più esattamente, “lavora” delle tavole di legno per trasformarle in muri. Un lavoro a metà tra pittura e scultura. Un vasto trompe l’oeil. Raffinato e sensibile. Legno assemblato talvolta in tavole sparse, inciso col bulino. Con poesia. Qualche volta, scavato da “finestre quadrate”. Gioco d’ombra e di luce, opposizione vuoto-pieno. Delfina Camurati gioca con i rilievi, con i tagli, con le crepe. Il legno diventa pietra, imbevuta di colori. Toni grigi, malva, ocra, ruggine. Toni di pietra, toni di rocce, come se Delfina Camurati avesse estratto un rettangolo dal muro di una grotta. Il tutto impregnato di passato. Il tempo e la storia sfilano come un film muto attraverso gli accidenti volontari del legno creati da Delfina Camurati. Tutto in purezza e sobrietà. Il pannello di legno si illumina al tempo stesso di dolcezza e di asprezza. Aspetto grezzo, poroso, come composto da mille granelli di ferro arruginito. Un’opera che ci conduce ad un ritorno al passato, al tempo lontano. Attirando la nostra attenzione sul mondo attuale. Mettendoci in guardia sugli abusi della società contemporanea che fa emergere lo spirito utilitaristico come presso i primitivi le costruzioni o le iconografie. Per proteggere contro potenze “altre”, in quei tempi lontani, o darci turbamento, oggi. Sorta di creazioni magiche. Non soltanto piacevoli – o no – alla vista, ma utilizzate anche come forza da impiegare contro la nostra società che “non ha più nulla da dire”.
Patina elegante e minuziosa che accentua l’illusione. Per meglio rinviarci ai secoli passati. Con una verità oggi scomparsa. Divorata dall’artificialità. Delfina Camurati crea un’opera totalmente personale. Fatta di simmetria e di caos, di linee verticali e orizzontali. Un lavoro in cui il legno per diventare “materia” – materia differente – è lucidato con pelle di daino, coperto di intonaco, dipinto con colori tono su tono. Per diventare pietra. Costruzione di storia e di ricordi. È tecnicamente perfetto. Un sogno rappresentato, in tutta la sua complessità, dalla semplicità della materia. Di una materia che l’illusione fa apparire sotto l’aspetto di un’altra. Come per magia. Istante quasi irreale in cui il giorno si volge in notte. L’opera diventa blu. Ardente e profonda. Si dimentica il passato per meglio denunciare il presente. La sua falsità, le sue false parvenze. Nostalgia e constatazione. Variazioni inesauribili su un tema unico: il muro. Scolpito o dipinto, sempre con maggior leggerezza. Come per denunciare il peso degli anni ancora più a lungo. La potenza della pietra. Respiro maestoso di un’artista che ritrova ancoraggi archeologici. E il soffio dell’umanità. Con sensibilità e forza...
REMI DE CNODDER
De Nieuwe Gids febbraio 1991
Galerie Francis Van Hoof
De Grote Witte Arend
Anversa
Precipizi della memoria L’artista italiana Delfina Camurati serba bei ricordi delle sue mostre nel nostro paese. Alla galleria “De Groote Witte Arend”, alla Reyndersstraat di Anversa, lo scorso anno ha esposto numerose opere cui diversi critici d’arte hanno dedicato tributi elogiativi. E infatti, l’arte di Camurati si nota subito per la particolarità dell’allestimento. E inoltre solleva il dubbio se ci si trovi davanti a dipinti da lei realizzati o a enormi sezioni di pareti rocciose. È dunque un’arte che si basa sulla realtà, ma che a molti appare astratta, pur non essendo affatto così.
Delfina Camurati ha il suo atelier a Torino dove espone regolarmente. La prima mostra delle sue opere ebbe effettivamente luogo a Torino nel 1976, e successivamente in numerose località del suo paese natio. Ma, i suoi lavori sono stati esposti già in diverse occasioni in svariati paesi europei e americani. È dunque chiaro che l’artista riscuote con la sua opera un vasto interesse che a sua volta si traduce in uno stimolo a creare.
L’artista è affascinata da muri, pareti rocciose e pietre, perché essi in realtà hanno qualcosa del passato e delle origini, ponendo l’uomo davanti allo specchio di ciò che è stato. Abbiamo visto la sua opera nel suo atelier, e si può a ragione parlare di una sorta di laboratorio di ebanista, dove ovviamente sono a portata di mano anche diversi tipi di vernice. È soprattutto la lavorazione della superficie liscia del legno che richiede molta della sua attenzione. Si tratta infatti di riprodurre muri e pareti su cui il tempo ha lasciato le sue tracce. Vi sono inoltre apportate giunture che danno l’impressione di grandi blocchi di pietra accatastati.
Ciò che salta subito all’occhio nell’opera di Delfina Camurati è la costante unità della sua arte. Nella sua vasta opera si scopre chiaramente una linea pura per quanto concerne l’espressione, senza che di fatto vi sia una sola ripetizione. Al contrario, si può dire che è una sorta di archeologa alla ricerca dei segni del tempo, dell’azione del tempo e degli eventi sui muri e le pietre. Sono i leggeri rilievi che si possono ritrovare nell’opera artistica firmata Camurati. Ma proprio perché artista di maturo talento e grande impegno, i risultati sono un modello di perfezione. Di fatto non si tratta mai di vere riproduzioni, muri e pareti rappresentano per l’artista solo un punto di partenza da cui crea le proprie forme e che conservano una pura e forte identità nel loro rapporto con ciò che si trova in natura.