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abbiamo tanto tempo

 

Il Castello di Rivara – Museo d’Arte Contemporanea è lieto di presentare Antologica di Delfina Camurati, una mostra che omaggia e rilegge criticamente l’intera opera dell’artista biellese, protagonista attiva della scena italiana da più di quarant’anni.
Si passa dai “Fili a piombo” degli anni settanta, sottili centrature del pensiero e compendi taglienti di atmosfere post-concettuali, alla serie “La fabulazione del silenzio”, dove gli spazi vuoti, accolti e generati da installazioni leggere, simili a tende, sembrano significare naturalmente raccoglimento e rinascita individuale.
Le “Murrate e i muri” degli anni ‘80, invece, sono barriere, in verità non impenetrabili, di materiale mimetico (il legno imita la pietra). Diaframmi di mondi diversi separati da muri occasionali, au-delà della materia stessa, simbolo di unità ottenute con l’immaginazione.
Le fonti del “Dio dell’Acqua” degli anni ’90, sono installazioni a più livelli che compendiano, attraverso l’imitazione dell’acqua, il senso più intimo dell’illusione e della pittura fino all’assunto radicale per cui “il colore dell’acqua è sempre colore di fondo”. Nelle vibrazioni di “Da dove scaturì quel suono?” del 2000, fino alle ultime serie  “La fiamma svelò alla scintilla il grande segreto”, l’artista testimonia la gratitudine per un mondo spirituale che si sviluppa, come suggerisce Caterina Gualco, in “un linguaggio a-temporale, libero e felice di se stesso”.
Osservando la stesura simultanea di tutte le opere proposte in mostra, e pur nel logico avvicendarsi di periodi esteticamente differenti, la sensazione che abbiamo con Delfina Camurati è quella di un’artista che, facendo uso coerente di simboli identificabili, celebra una sorta di percorso guidato di elevazione spirituale, di ‘disinquinamento’ dalle esperienze politiche e artistiche degli anni ’60/‘70 e di proiezione verso mondi post-ideologici. Tutta la sua opera, nutrita di avanguardie ma collocata nel solido solco di una oggettualità tangibile, parte da elementi della natura: cieli, mari, terre,

fulmini, acque. Questi luoghi paiono esistere davvero, concepiti come sono nei viluppi possibili del cielo e della terra, ma per dirla con Janus, essi sembrano piuttosto voler “introdurre il visitatore a contatto con se stesso, non con una immagine esterna”.
La definizione della realtà, dunque, illusoria o meno, si delinea nello studio delle tracce che lascia, attraverso la trasformazione dei materiali fisici, delle idee e non ultimi i ripensamenti sul proprio lavoro e le idiosincrasie.  

testo a cura di Fabio Vito Lacertosa

 

 



Il mio lavoro è costituito da cicli ben definiti che hanno ciascuno una durata di alcuni anni.

Tra un ciclo e l’altro ci sono momenti di transizione che hanno archi di tempo variabili.

I lavori che segnano il passaggio tra un periodo e quello successivo sono per me i più interessanti, anche se i meno risolti perché ancora non strutturati: il linguaggio è incerto, non appartengono più al passato e sono insicuri sulla direzione da prendere, la strada è oscura e la meta appare lontana, l’intuizione vacilla ma, nonostante ciò, i grumi si avvicinano e si condensano, una fessura svela un nuovo mondo ancora da scoprire.

La metamorfosi è avvenuta e il bruco può diventare farfalla.

E allora:

calma

quiete

abbandono

marchio indelebile

rigenerazione

e finalmente …

lavoro!

Parte compatto un nuovo ciclo, tutto viene visto in questa chiave dimentico di ciò che è esistito e incurante del futuro.

In questo momento è il mondo da sviscerare, masticare, togliere da abissi mai svelati ancora troppo celati alla mia vista per la loro estrema lontananza o profondità.

Come una tartaruga

mi ritraggo in me stessa

ritiro il capo,

le zampe, la coda

e vivo nella mia concentrazione

sazia di me

Attendo che si componga un nuovo puzzle, qualche volta l’intuizione si precisa più velocemente: gli Archetipi si concentrano in un sol punto, la confusione svanisce e la visione ritorna cristallina.

Quando ciò accade può iniziare un nuovo ciclo di ricerca: tutto è semplice.

I grumi si trasformano in tessere, ognuna va al posto assegnatole, non esistono ripetizioni né sovrapposizioni e il gioco diventa estremamente interessante e avvincente.

So che anche questo ciclo terminerà al momento opportuno

Per ora la storia finisce qui.

Delfina Camurati

 

 


 

DELFINA CAMURATI

di Fabio Vito Lacertosa

I lavori di Delfina Camurati, presentati qui in veste di antologia dal 1971 ad oggi, rappresentano le tracce visibili di un viaggio doppio, geografico e intimo. Se da una parte vi si scorge netta la scelta – quasi la necessità – di muovere la ricerca verso spazi lontani, dall’altra si fa strada l’impronta di una voluttà anarchica dello sparire, di eclissarsi dal mondo dell’arte e riapparire dopo anni in forma inesausta di sorgente, occasione, destino incrociato. Le opere di Delfina Camurati sono come fontane di campagna, costruzioni che rompono la continuità del paesaggio di superficie, canali che affondano le proprie radici nell’intreccio dei segni per riaffiorare in forme di architettura occasionale, conoscenza insperata, pittura che si raffina in elemento iniziatico.

Se la questione femminile e quella politica – così di moda sulla scena dei suoi esordi – sono materiali troppo facilmente infiammabili per non essere toccati con la più totale discrezione, la necessità di mettere in contatto le sfere diverse del sentire le offre l’opportunità di sforare segreti con uno sguardo d’insieme. Uno sguardo discreto non fa scappare i buoi dalla stalla, recita un proverbio. Tale sguardo discreto è la traccia dell’esperienza, che si svela in una sorta di reportage di fonti, di documentario di nodi, punti cruciali del linguaggio e dello spazio, specie di ruscelli precristiani, proiezioni esistenziali dell’Uno nel capillare, forme dello spirito che incontrano il silenzio: culla paradossale che sempre accoglie e rivela il nuovo. Il Silenzio come lucidità del divenire. Oggetti che nascono dal nulla. La lucidità è dunque il grado zero del linguaggio e viceversa l’azzeramento del linguaggio una sorta di buio relativo dell’arte, nel quale perdersi.

Mai come in questo caso farsi attraversare da mondi lontanissimi diviene persino una forma di realismo. Il risultato di tale apertura è un percorso naturale, artigianale, che riverbera gli elementi della conoscenza nelle trame della texture pittorica, e che sembra formare un argine alla costante minaccia di dispersione degli elementi. Delfina Camurati è una sorta di pastore di greggi-nuvole che si specchiano in spazi talvolta molto grandi, ma sistemati, incorniciati all’interno di architetture che si possano idealmente abitare. Quando il dispositivo di comunicazione è cavo, è allora certo che un segno sarà rivelato. Con certezza un alfabeto leggibile sarà tradotto in un au-delà insorgente, posto all’altro capo del mezzo. Come radioline.

Nelle opere, da intendersi come registratori di frequenze, vi è sempre una forte sensibilità, una forte dialettica tra colore e forma, e quest’ultima si nasconde e dissolve nel primo. Dove la questione dell’artista-demiurgo è sottile come un filo, anzi come la traccia cromatica di un filo.

In Delfina Camurati la ricerca della verità attraversa la maschera, come metafora di potenza e ostacolo allo stesso tempo. Il muro che si erge a vincolo della visione diviene protagonista di un rito dell’abbattimento che lo scinde in scaglie. Spade che diventano foglie. L’oriente come teatro di combattimento e meditazione, suggellatore di avanguardie. Le stesse che si manifestano nel lavoro di Delfina Camurati come naturale conseguenza di una Parigi minore, di provincia. Della Ville Lumiere c’è la tensione gnostica, c’è Il teatro e il suo doppio di Antonin Artaud, c’è Il monte analogo di René Daumal, ci sono le Texturologies di Jean Dubuffet e le pozze informali e rivelatrici di Jean Fautrier, benché filtrate dalla lezione della stagione minimale e concettuale. Centrarsi nel contemporaneo è il compito primario di una recherche che, divenuta manierismo, mira alla costruzione di sentieri estetici percorribili a ritroso.

La ricerca di un profondo equilibrio tra avventura repentina della conoscenza e lentezza della manifattura artigianale avviene oggi nel suo studio di Corso Sacco e Vanzetti 5, luogo luminoso nella periferia ovest di Torino, che ho visitato la prima volta mentre da una radiolina, per l’appunto, con una certa straniante simpatia, girava un pezzo di Franco Battiato. Avete presente le radio dei meccanici, o dei carrozzieri? Piccole, col volume basso, da compagnia, ma argutamente ascoltate, quando serve. Con un sorriso delicato Delfina fa spallucce, qualcosa del suo modo di muoversi ricorda le danze del cantautore siciliano. Con lui condivide la capacità di rendere godibile la ricerca dell’ascesa. Un piccolo peccato pop. Il lavoro di Delfina è infatti un percorso serio che mira, fuori dai canoni del mainstream, all’accordo fra generazioni, alla cura di Salomone e al tempo stesso alla tregua con Asmodeo, laddove l’ombra è gioco, racconto, trattativa letteraria tra l’alto e il basso. Anche qui, senza vano misticismo, piuttosto con un innato senso di realtà che si realizza attraverso l’immaginazione, notiamo quotidiani e allo stesso tempo illuminanti percorsi ad ostacoli di cartapensiero.

Personalmente, il lavoro con Delfina Camurati nasce in occasione di una mostra Antologica al Castello di Rivara – Museo d’Arte Contemporanea, fortemente voluta da Franz Paludetto, una mostra che omaggiasse e rileggesse criticamente l’intera opera dell’artista biellese, con l’obiettivo di confermarne un ruolo da protagonista attiva della scena italiana da più di quarant’anni. Una testimonianza di una donna libera e di un’artista capace di non svalutare l’originalità del proprio viaggio. In mostra dunque, ma soprattutto in questo catalogo, si passa cronologicamente dai “Fili a piombo” degli anni settanta, sottili centrature del pensiero e compendi taglienti di atmosfere post concettuali, alla serie “La fabulazione del silenzio”, dove gli spazi vuoti, accolti e generati da installazioni leggere, simili a tende, sembrano significare naturalmente raccoglimento e rinascita individuale.

Le “Murrate e i muri” degli anni ‘80, invece, sono barriere, in verità non impenetrabili, di materiale mimetico (il legno imita la pietra). Diaframmi di mondi diversi separati da muri occasionali, superamenti della materia stessa, simbolo di unità ottenute con lo sforzo dell’andare oltre. Le fonti del “Dio dell’Acqua” degli anni ’90, sono installazioni a più livelli che compendiano, attraverso l’imitazione dell’acqua, il senso più intimo dell’illusione e della pittura fino all’assunto radicale per cui “il colore dell’acqua è sempre guidato di ‘disinquinamento’ dalle esperienze colore di fondo”. Trattare il piano orizzontale non come pittura ma come “preparazione alla pittura”. Nelle vibrazioni di “Da dove scaturì quel suono?” del 2000, fino alle ultime serie “La fiamma svelò alla scintilla il grande segreto”, l’artista testimonia la gratitudine per un mondo spirituale che si sviluppa, come suggerisce Caterina Gualco, in “un linguaggio a-temporale, libero e felice di se stesso”.

Osservando la stesura simultanea di tutte le opere proposte in mostra, e pur nel logico avvicendarsi di periodi esteticamente differenti, la sensazione che abbiamo con Delfina Camurati è quella di un’artista che, facendo uso coerente di simboli identificabili, celebra una sorta di percorso politiche e artistiche degli anni ’60/‘70 e di proiezione (in tempi non sospetti di qualunquismo) verso mondi post-ideologici. Tutta la sua opera, nutrita – come già indicato – di avanguardie ma collocata nel solido solco di una oggettualità tangibile, parte da elementi della natura: cieli, mari, terre, fulmini, acque.

Questi luoghi paiono esistere davvero, concepiti come sono nei viluppi possibili del cielo e della terra, ma per dirla con Janus, essi sembrano piuttosto voler “introdurre il visitatore a contatto con se stesso, non con una immagine esterna”. La definizione della realtà, dunque, illusoria o meno, si delinea nello studio delle tracce che lascia, attraverso la trasformazione dei materiali fisici, delle idee e non ultimi i ripensamenti sul proprio lavoro e le idiosincrasie.

C’è un tempo per credere e un tempo per rimettere in discussione. La natura arguta delle esplorazioni di Delfina, infatti, le permette di giocare di volta in volta con le esperienze e pianificare sempre un nuovo capitolo del nuovo viaggio del nuovo sistema. Il precedente, come guscio che si divarica, come propulsore esausto di shuttle che si perde nel vuoto e lascia il posto al nuovo, è servito.

L’arte di Delfina Camurati è infine un modo come un altro di essere sé stessa. Arte del corpo e dello spirito che si spinge a non temere le trasformazioni del corpo e dello spirito. Che non si ferma a ciò che è già posseduto, ma intende, con estrema chiarezza, lasciare agli altri esploratori oggetti che siano dispositivi riconoscibili, in orbite già segnalate dalle mappe.

 


 

Sono su una piattaforma sospesa nel vuoto,

tutto è precario.

Posso volare o cadere,

è indifferente.

Non c’è soluzione qui,

solo esperienza.

Qualsiasi cosa succeda non mi devo preoccupare

non è mia responsabilità.

Mi posso innamorare di questo posto,

è bellissimo,

sembra un paradiso,

 

è un rifesso.

 

Mi guardo allo specchio

e mi accorgo che è solo uno specchio.

 

 

Il mare si abbassa,

si svela un’isola,

ha un centro luminoso

lo spazio interiore si sta dilatando,

silenzio profondo.

La mente si apre, si apre e ancora di più.

Gli emisferi si distanziano,

si forma un canale:

il canale dell’intuizione.

Ci sono energie di tutti i tipi,

si mescolano e si purifcano,

comprendo che è un’unica energia.

Tutto si fonde,

è come un crogiolo.

Sembra l’interno di un vulcano:

fuoco, acqua, terra, tutto è alimentato dall’aria.

Non ci sono più differenze,

neppure io esisto più.

 

 

 

 

Io e mio fratello piccoli per mano a nostro padre.

Lui ci indica una città chiara e luminosa e ci dice di andare.

È una città circolare che termina in un cono.

Ha mura concentriche, all’interno numerose stanze.

 

Nella prima c’è l’ansia da risultato:

la mente proietta sui muri immagini

di realizzazioni inesistenti.

 

Altra stanza, chiusura ancora più grande:

è una stanza interna dove il successo è legato al giudizio.

Inevitabile la mancanza di realizzazione.

 

Entro in un luogo chiaro, mi pare un giardino,

nasconde un inganno.

Sono le molte aperture verso gli altri.

richiedono una ricompensa.

 

Vado verso l’interno, quasi al vertice del cono.

Appare la superbia.

Si manifesta in vari modi.

 

Mi sposto su un lato e osservo:

vedo il cono con tutte le sue stanze,

sono tantissime, ma non infnite.

All’Infnito c’è un puntino,

non esistono confni, la libertà è totale.

 

Guardo indietro e vedo:

siamo tutti nelle nostre gabbiette, come tanti polli.

 

 

 

Lago molto piccolo

all’interno di un cratere.

Molte persone:

la famiglia, i parenti, gli antenati,

portano tutti dei pesi:

zaini, valigie, borse.

È un grande raduno,

abbiamo tanto tempo,

silenzio, pace, tutto è immobile,

bambini che giocano un po’ più in là.

 

Gente in quantità ovunque:

qui si nutrono quando sono stanchi.

È un lago piccolissimo,

ma molto profondo:

è un serbatoio,

si rigenera continuamente.

 

Intorno c’è tutta la storia.

 

L’acqua aumenta e diminuisce:

un passaggio, non so la strada.

Fenditure d’oro:

bisogna trovare la porta giusta.

Cunicolo, muro che si sposta.

Non è un luogo.

Energia che esce dalla montagna

(che non è una montagna).

Non è un luogo.

 

Sono solo una spina dorsale.

 

 

 

Scavo in fondo al mare

la sabbia ha sepolto molte cose.

C’è una città di pietra cintata da mura.

È un mondo di cui non ho memoria.

È sigillata e ci sono trabocchetti,

non si distingue il vero dal falso.

È una fortezza.

È irreale.

Sembra pietra, ma è solo sabbia.

Di qua c’è il mare, di là c’è il mare.

Si può aprire il cancello, ma nessuno lo sa.

È un condizionamento antichissimo.

Nella realtà esiste solo il mare.

 

 

 

 

 

 

 

 

Sono una cellula che entra in un corpo:

 

sono un albero della foresta

 diventerò vecchio

 morirò di vecchiaia

 e lascerò un germoglio.

 

Sono un anemone di mare che pulsa,

 può solo pulsare.

 

Sono un bruco che sale su un ramo

entro in un buco e riappaio come ragno.

 

Sono una farfalla

sorvolo montagne e pianure

attraverso tutto il pianeta per trovare la mia collocazione.

 

C’è una vita vissuta nella strada e anche nella foresta...

Ho viaggiato molto, tra animali e persone.

Ho cacciato e sono stata cacciata.

 

C’è un senso a tutto questo:

è il senso della vita

 

 

 

 

 

Sono su una barca,

un rematore mi conduce in un tunnel.

Lascio lì i miei occhi perché si abituino a morire.

Il rematore continua a remare,

molto silenzio.

Il tunnel diventa più piccolo.

C’è posto solo per la barca.

Tutto è nero e tortuoso.

Non ho più gli occhi.

Tutto buio.

Sto uscendo, la caverna si apre,

so che c’è luce, ma io non vedo.

Sono sempre sulla barca.

Il fiume è finito

Scendo dalla barca.

Non vedo.

C’è molta luce intorno, ma io non vedo.

Non vedrò mai più come prima.

 

D’ora in poi vedrò.